Siamo a Firenze, è il quarto decennio del XVI secolo. Il Granduca Cosimo I de' Medici, seguendo il desiderio di vivificare costantemente l’alto nome dell’arte fiorentina, fonda una manifattura d'arazzi a Firenze, tra le prime istituite in Italia, affidandone la direzione a due maestri arazzieri fiamminghi, Jan Rost e Nicolas Karcher, già in Italia da diversi anni entrambi al servizio degli Estensi a Ferrara.
Tra gli autori di cartoni, cioè i disegni preparatori da trasporre poi in arazzo, figurano alcuni dei più importanti artisti presenti all’epoca alla corte dei Medici, Alessandro Allori, Agnolo Bronzino, Jacopo Carucci detto il Pontormo e Francesco Salviati. La manifattura possedeva laboratori in diverse parti della città, ricordiamo le significative via dei Cimatori e via degli Arazzieri e rimase operativa fin verso la metà del Settecento, quando venne chiusa con la morte di Gian Gastone de' Medici, ultimo della dinastia medicea.
Durante il Cinquecento l’Arazzeria fiorentina creò opere d’arte di immenso valore, una collezione così preziosa purtroppo oggi dispersa in diverse raccolte, veri e propri capolavori tessuti utilizzati per arredare le pareti di palazzi cittadini e di ville nobiliari, oppure nelle grandi occasioni cittadine, sacre e profane, decoravano strade e piazze, ad esempio per celebrare la festa del Corpus Domini o il giorno di San Giovanni, patrono di Firenze.
Il nostro interesse si concentra ora su una serie di arazzi, venti per l’esattezza, tessuti negli anni 1545 e 1553 presso l’Arazzeria medicea, il cui tema erano le vicende del patriarca biblico Giuseppe. Perché questa scelta? Esiste in realtà un esplicito riferimento alla vota di Cosimo I de Medici: come Giuseppe, Cosimo aveva conosciuto la triste sorte del tradimento e l’amara esperienza dell’esilio ma, grazie alla forza dell’intelletto e alla capacità di perdonare, era riuscito a riconquistare quanto aveva perduto, dimostrando il proprio potere attraverso la pratica della magnanimità. L’argomento scelto per la realizzazione della preziosa serie di arazzi non è dunque casuale ma studiato a tavolino ed è sotto questa importante spinta che gli arazzieri si imbarcano nella creazione di questi enormi panni tessuti a basso liccio, impiegando come materiali fili di lana, di seta, d’oro e d’argento.
Negli anni Settanta di ben quattro secoli dopo, un telefono squilla ad Asti, inoltrando una richiesta in arrivo da Roma; uno di questi arazzi è conservato presso il Palazzo del Quirinale, ma versa in condizioni che destano preoccupazione agli occhi del sovrintendente alle Gallerie delle Opere d’Arte di Roma, Guglielmo Matthiae. È lui a chiamare Ugo Scassa e a chiedergli aiuto per uno degli arazzi fiorentini realizzato su cartone di Agnolo Bronzino e che narra il Convito di Giuseppe con i fratelli, l’opera dice lo storico dall’altro capo del filo, si sta sbriciolando.
Ugo Scassa in quel giorno del 1972 rispose d’istinto che gli arazzi lui li faceva, per di più dedicati all’arte contemporanea, non li restaurava, ma Matthiae sorvolò su quella risposta che avrebbe potuto disarmare, chiedendo all’arazziere di fare comunque un salto a Roma almeno per verificare lo stato di salute del malato.
Partì, a bordo della sua auto, una 130 coupé Pininfarina argento metallizzato, all’epoca un’auto da sogno, prodotta dalla Fiat esclusivamente per onor di firma e durante il viaggio Ugo Scassa avrà avuto sicuramente tempo per ricordare quando, circa dieci anni prima, era stato impegnato nel restauro di tre arazzi, realizzati dall’Arazzeria Scassa e venduti a collezionisti, prestati per una mostra ad Atene e rientrati in Itali sfregiati da rasoiate vandaliche. Il lavoro ebbe il plauso dei proprietari delle opere, il restauro talmente minuzioso da risultare irriconoscibile. Era vero però che esperienza sulle opere antiche non ne aveva, disse osservando l’arazzo, una volta giunto a Roma, il panno già staccato dal muro e custodito nei depositi del Quirinale.
A quel punto un’idea si fece strada nella mente di Ugo Scassa, la possibilità cioè di verificare come venivano restaurati i tessuti antichi presso il laboratorio vaticano, gestito dalle suore di clausura e, ottenuto il permesso, mentre le monache erano in preghiera e le attività ferme, si aggirò tra i tavoli, osservando. Si poteva tentare, si poteva provare, si poteva riuscire. Forse quel prezioso arazzo, voluto da Cosimo I si poteva salvare.
Il contratto di lavoro, grazie ad una serie di accordi, venne firmato poco dopo il Natale del 1972 e l’opera giunse alla Certosa, sede dell’Arazzeria Scassa, ai primi di gennaio dell’anno seguente, lasciando Roma dopo quasi un secolo di permanenza. Le cure prestate dall’atelier astigiano furono lunghe e pazienti, durarono ben quattro anni, più del previsto ma non c’era scelta, quello era il passo che un lavoro del genere poteva permettere. Parti dell’opera infatti erano inconsistenti, si polverizzavano al solo tocco dell’ago e le tessitrici lavorarono al massimo della concentrazione. Ugo Scassa supervisionava, consapevole che non esisteva assicurazione, perché il costo avrebbe superato la spesa del restauro stesso e dunque, trattenendo il fiato, bisognava procedere.
Quando fu possibile staccare l’arazzo cinquecentesco dal telaio bisognava decidere come restituirlo a Roma; non era assicurato e dunque bisognava prestare la massima attenzione a non commettere errori proprio adesso. Scassa si dichiarò disposto a trasportare l’arazzo a bordo del suo coupé scintillante e metallizzato e dall’altra parte il sovrintendente programmò, per la tranquillità di tutti, la presenza di una scorta della polizia lungo tutto il viaggio. Così l’arazzo mediceo riprese la strada verso Roma, rinnovato e restaurato, pronto ad affrontare altri secoli da opera d’arte tornata a nuova vita.
Nel luglio del 1977, Ugo Scassa e la moglie Katia Alcaro partirono per raggiungere Roma, destinazione il Quirinale, per restituire l’arazzo Medici. Aspetto interessante è che probabilmente non tutte le scorte erano state informate che la sorveglianza non era a vantaggio di Ugo Scassa e di Katia. Oggi Catia racconta l’episodio con gli occhi che sorridono ancora molto divertiti dal ricordo.
Ad una sosta per rifornire di benzina l’auto, quando si allontanarono dalla loro macchina, lasciando le chiavi inserite nell’avviamento per eventuali necessità della scorta, i poliziotti seguirono loro al bar, lasciando la macchina, Agnolo Bronzino, il serbatoio pieno e la macchina pronta a partire, incustoditi. Ugo Scassa sbiancò e riprese il viaggio sufficientemente confuso dall’avvenimento.
Probabilmente un fatto del genere avrebbe divertito moltissimo Giorgio Vasari.
L’arazzo realizzato a Firenze su disegno di Agnolo Bronzino giunse a Roma, accolto con tutti gli onori il 28 luglio del 1977, immutato nella forma e nel significato ma riportato a nuovo splendore, 5 metri per 5,65 di antica storia, narrata attraverso così tante mani, quelle fiorentine di quattrocento anni fa, le tante mani che lo hanno arrotolato e messo via, le mani preziose delle tessitrici astigiane che lo hanno restaurato, le mani di Ugo Scassa che hanno deciso e determinato di affrontare questa straordinaria avventura dell’arte.