La Certosa di Valmanera svetta tra il verde del vasto parco che la circonda, struttura antica e imponente, che un tempo doveva coprire un’area ben più vasta a giudicare dal disegno che la ricorda nelle sue componenti principali, all’interno della celebre raccolta secentesca denominata Theatrum Statuum Sabaudiae.
La Certosa, voluta e fondata dai monaci benedettini vallombrosiani, è lì presente da molto tempo, una data imprecisata che dovremmo porre tra il 1039, data di fondazione dell’Ordine, e il 1391, quando la Certosa passò sotto l’Ordine dei monaci certosini. Una storia antica, per certi versi sofferta, fatta di decurtazioni, invasioni straniere e spoliazione.
Nel marzo del 1801 la Certosa cessò di esistere come entità giuridica, il governo napoleonico ne dichiarò la soppressione, sciogliendo la comunità che qui viveva e che in parte si aggregò alla Certosa di Casotto o ritirandosi a vita privata. Alcuni mesi dopo, ad agosto dello stesso anno, l’edificio venne saccheggiato di tutti le parti d’arredo, compresi gli infissi e molte statue ed altari furono trasferiti in altre chiese della città. L’importante patrimonio di arte e cultura che la Certosa custodiva tra le sue mura sparì senza lasciare alcuna traccia e l’unica parte dell’antico e ramificato corpo di fabbrica oggi superstite è un lungo loggiato e una serie di spazi: è in questi spazi che nel 1963 si decise di collocare l’atelier dell’Arazzeria Scassa.
È qui che
telai del Seicento e del Settecento si alternano lungo le pareti imbiancate, insieme a lunghi tavoli utilizzati per l’attento restauro di arazzi e tappeti, che giungono in Arazzeria dopo aver vissuto a lungo in dimore signorili o che semplicemente passano da un erede all’altro. Qui aveva tenuto un incontro, il 16 marzo del 1968, il celebre poeta
Giuseppe Ungaretti, aveva letto le sue poesie, dialogato con il pubblico che aveva gremito la sala dell’atelier. In questa stessa sala le tessitrici siedono ancora oggi su semplici e funzionali panche di legno che
Massimo Bilotta, nuovo direttore dell’Arazzeria, racconta con serenità esser state disegnate da
Ettore Sottsass jr., talentuoso designer che il mondo ci invidia.
Parlare con Massimo è così, i nomi di grandi artisti e straordinari eventi si alternano ai ricordi di bimbo, di ragazzo e di famiglia. Lo storico dell’arte resta piacevolmente disorientato. Mi siedo su una delle panche e prendo nota, iniziando con la prima domanda.
Gli chiedo cosa ha significato per lui crescere nell’atelier di una bottega d’arte come l’Arazzeria. Per Massimo, fino a quando non si interfaccia con il pubblico di conoscitori, studiosi e appassionati, la sua esperienza è uguale a quella di ogni altro ragazzo, oggi uomo, che cresce, tra ricordi personali. “Mi addormentavo ascoltando il movimento sommesso e meccanico del telaio, sapevo che a produrre quei suoni erano, insieme alle altre tessitrici, anche mia zia e mia madre. Era rassicurante. In modo particolare ascoltavo il suono ottuso che produceva il pettine di metallo battuto sulla trama, per fissare definitivamente i fili. Sono i suoni della mia infanzia”.
La scomparsa di Ugo Scassa, la necessità di scegliere
Lo zio di Massimo, Ugo Scassa muore improvvisamente all’inizio del 2017, lasciandolo solo con la vedova, Katia Alcaro e la sorella, Franca Alcaro, madre di Massimo. Insieme decidono nel giro di qualche mese di portare avanti il progetto di Ugo.
“Ho parlato a lungo con mia zia, con mia madre, abbiamo pensato cosa fare, cosa avrebbe fatto Ugo. Potevamo vendere, l’Arazzeria è un brand di lusso estremamente ricercato, ma volevamo andare avanti: zia Katia, moglie di Ugo ha una tempra d’acciaio, così anche mia madre, due donne minute e sottili, riservate, ma che nascondo una volontà di ferro. La loro determinazione, un esempio.”
L’Arazzeria nasce come progetto di Ugo Scassa, dopo l’esperienza della galleria Il Prisma di Torino e dopo la creazione della firma di arte e design Italia disegno. Oltre a seguire personalmente l’allestimento delle mostre e ad amministrazione la galleria, Scassa si era avvicinato alla progettazione d’interni e alla realizzazione di complementi d’arredo. Molti i contatti in questo periodo, con artisti in via di affermazione, Lucio Fontana agli esordi, Luigi Spazzapan e un lungo sodalizio artistico con Corrado Cagli.
Il laboratorio arazziero, definitivamente trasferito alla Certosa, divenne un crocevia di artisti e intellettuali, mentre nello studio romano di Cagli si creavano contatti e occasioni di lavoro. L’artista divenne presto il direttore artistico del laboratorio artigiano e riuscì a coinvolgere altri suoi amici e colleghi, tra cui Marcello Avenali, Fabrizio Clerici, Renato Guttuso, Umberto Mastroianni i quali divennero presto committenti dell’arazzeria.
“Di Cagli conservo dei ricordi” osserva Massimo Bilotta “abbastanza distinti, ero tuttavia piccolo ma quando veniva qui in visita mi donava alcuni giochi e per me era un uomo dal largo sorriso e simpatico.” Lo guardo invidiosa, non tutti possono dire di aver avuto regali d’infanzia da uno degli artisti più geniali del nostro Dopoguerra.
La vita artistica dell’Arazzeria conserva davvero importanti ricordi, ma ha anche lo sguardo proteso al futuro; quali sono i vostri nuovi progetti?
“Alcuni pensano che la nostra attività sia terminata ma non è così, abbiamo ancora committenze di alto livello. D’altra parte l’arazzo è una produzione creativa di lusso ma non siamo fermi, i nostri telai lavorano ancora.” Se gli si chiede a quale progetto stanno lavorando, il direttore risponde a mezze parole,
non può rivelare più di tanto. “Una
celebre maison parigina ha richiesto un grande arazzo, lo stiamo creando ad uno dei telai più grandi del nostro atelier, è in fase di produzione” risponde elusivo “ma non produciamo solo opere d’arte, abbiamo anche finalizzato la creazione di
corsi di tessitura ad alto liccio con l’Accademia di Brera di Milano e stiamo sviluppando progetti simili
con altre Accademie.”
Un'eredità da conservare e da consegnare al futuro
Ugo Scassa teneva molto a questo aspetto, alla creazione di una scuola, all’importanza di trasmettere alle nuove generazioni l’antico sapere, la pratica del telaio e i suoi mille segreti. Tra i documenti conservati nell’Archivio Scassa sono in effetti conservati dei documenti, degli appunti scritti a macchina dallo stesso fondatore che ripetono passo dopo passo i punti di forza di una scuola che permetta ai giovani di continuare questo mestiere così antico. Scassa stesso cominciò così a documentarsi sulla storia della produzione arazziera studiandone la tecnica e perfezionandosi con campioni di tessuto inizialmente destinati alla lavorazione dei tappeti. Un sapere artistico che si è fatto via via sempre più specializzato.
Cosa ricorda Massimo Bilotta del lavoro di arazziere di suo zio?
“Era meticoloso oltre ogni misura, amava la sua arte e pretendeva la perfezione, o quella o niente. Mi raccontava spesso di quando, alle prese con gli arazzi delle Carte per Corrado Cagli, decise che il lavoro non rispondeva alla sua intima e personale valutazione estetica e che per obbligarsi e obbligare le tessitrici a rifare tutto, aveva tagliato la trama con una lametta, in una notte di silenziosa valutazione e ripensamento. Non si poteva rimediare, bisognava soltanto ricominciare. Ne vennero fuori dei capolavori.”
L’Arazzeria Scassa ha esposto, nel corso del tempo, le sue opere, in molti eventi e mostre, momenti di incontro e confronto con un pubblico che si avvicina a quest’arte con il retaggio di ricordi legati all’arazzo antico, Secentesco ad esempio, o Settecentesco, con nature agresti e damine in controluce. Spesso quest’arte tessile viene considerata come specifica di un periodo storico, ben circoscritto iconograficamente.
Quello che l’Arazzeria Scassa ha invece fatto, potremmo dire con una risonanza a livello mondiale, è associare in modo indissolubile l’idea e la pratica d’arazzo all’arte contemporanea.
“Creiamo passaggi tonali praticamente impercettibili, come solo la tavolozza di un pittore sa fare, ed è per questo che possiamo accostarci all’arte contemporanea. Le campiture di colore per molti artisti contemporanei, mi viene in mente Kandinsky ma ne potrebbero venire in mente molti, davvero molti altri, non sono definite, i colori si fondono, si sovrappongono, si mescolano creando nuances inedite, indefinite. Noi le seguiamo, le interpretiamo, le valorizziamo grazie alle innovazioni tecniche introdotte da Ugo Scassa. Mia zia Katia e mia madre sono depositarie di un sapere che non ha precedenti. A noi non resta che procedere con questa eredità.”
Vorremmo parlare con Katia e Franca, ma il tempo a nostra disposizione è ormai giunto al termine, Massimo deve andare via e raggiungere la sua famiglia, la moglie Elena e i suoi bimbi. Sanno tessere? “Sì, anche se piccoli hanno imparato i rudimenti. Ma la loro grande gioia è poter giocare con le lane e con i colori”.
Avremo modo di incontrare le
due donne protagoniste di così tanta arte,
le sorelle Alcaro, in un altro momento. Ricominciano i rumori del pettine di metallo battuto contro trama e ordito, il lavoro riprende, l’Arazzeria torna ad essere
fucina di capolavori.